Il dolore
del possibile: quando la vita reale non coincide con quella immaginata
Scavando dentro
di noi ci accorgiamo che il vero problema non sono i colpevoli esterni o le
avversità del destino. La sofferenza nasce dal divario tra la vita reale e
quella che avevamo immaginato.
Nelle
narrazioni pubbliche — dalla cronaca al dibattito politico — siamo abituati a
cercare sempre un responsabile. Ogni problema sembra richiedere un colpevole,
qualcuno a cui imputare il dolore, l’ingiustizia, le occasioni mancate. È un
riflesso quasi automatico: se c’è sofferenza, dev’esserci anche un errore e chi
lo ha commesso. Ma scavando appena più a fondo, scopriamo che la realtà è più
complessa e, spesso, più scomoda.
Ogni individuo
cresce costruendo un racconto: ciò che sarà, ciò che potrà diventare, come
funzioneranno gli affetti, la carriera, la felicità. Queste narrazioni non sono
illusioni: sono mappe interiori che ci permettono di orientarci. Il guaio
arriva quando la mappa non coincide con il territorio del proprio io.
La realtà,
incurante delle nostre ipotesi, segue strade proprie: relazioni che finiscono
senza spiegazioni, lavori che non arrivano, talenti che non sbocciano come
sperato. È in quello scarto — a volte doloroso come una ferita, a volte sottile
come una malinconia — che nasce il disagio.
Attribuire a
qualcuno la responsabilità delle nostre frustrazioni è un modo per evitare un
esame più profondo. Anche quando un responsabile esiste davvero, la sofferenza
che proviamo ha radici più intime: non è l’evento in sé a lacerare, ma la
violenta smentita di ciò che avevamo previsto. Così la ricerca del colpevole
diventa una forma di anestesia. Protegge dall’idea più dolorosa di tutte: che
la vita non seguirà mai fedelmente il copione che avevamo scritto.
Riconoscere
questo divario non significa arrendersi. Al contrario, è il primo passo per
riappropriarsi della propria libertà interiore. Quando smettiamo di accanirci
contro ciò che “sarebbe dovuto essere”, possiamo finalmente vedere ciò che è.
E ciò che è,
per quanto imperfetto, ci permette di muoverci, scegliere, reinventarci. È la
realtà — non le aspettative — il luogo in cui possiamo agire. Già Seneca
ricordava che “nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove
andare”. Ma la saggezza stoica insegnava anche che, pur avendo chiara la rotta,
è il mare — non la nostra volontà — a decidere le condizioni. Ed è proprio
nell’accettazione di ciò che non possiamo controllare che si radica la
serenità.
Forse la sfida
più radicale della vita adulta è questa: fare pace con l’idea che nessuna
visione immaginata coinciderà mai totalmente con il percorso reale. Se
riusciamo a sostenerla, questa consapevolezza non ci toglie speranza: ci
restituisce misura, lucidità e gratitudine. E ci consegna anche un senso
critico più vigile, capace di leggere ciò che accade attorno a noi.
Perché la vita,
quando smettiamo di giudicarla rispetto ai nostri modelli ideali, rivela
improvvisamente una ricchezza inattesa. È lì, nello spazio tra ciò che avevamo
immaginato e ciò che incontriamo davvero, che nasce una nuova maturità. Ed è lì
che impariamo a essere più presenti e responsabili, non solo per noi stessi, ma
per l’intero tessuto sociale.
26 novembre 2025 – Giuliano Martini Ascalone
