L’Occidente, un tempo culla della civiltà, si rivela attualmente il campione della cultura del vuoto

 


L’Occidente, un tempo culla della civiltà, si rivela attualmente il campione della cultura del vuoto


Un tempo culla del pensiero, dell’arte, della democrazia e del progresso, oggi l’Occidente sembra aver smarrito la rotta. In nome del benessere materiale, del profitto e dell’effimero, si è costruita una società ipertecnologica, iperconnessa e, paradossalmente, disumanizzata. La cosiddetta “cultura del vuoto” ha preso il sopravvento, svuotando di significato parole come comunità, responsabilità, bellezza, conoscenza.

Ha saputo dare i natali alle più grandi rivoluzioni scientifiche, politiche e artistiche della storia umana: dal Rinascimento alla Rivoluzione francese, dall’Illuminismo alla conquista dello spazio. Oggi, tuttavia, quel medesimo Occidente – che per secoli ha affidato al sapere, alla ragione e alla bellezza le fondamenta della propria identità – si trova a incarnare una nuova forma di primato: quello della “cultura del vuoto”.

Nato dal sincretismo greco-romano e cristiano, l’Occidente ha costruito il proprio mito sull’idea di progresso continuo. L’avventura scientifica, l’ascesa della democrazia rappresentativa, la nascita della stampa e, più tardi, Internet, si sono susseguite come tappe di un unico, inarrestabile cammino verso un futuro migliore.

Il paradosso è che, mai come ora, abbiamo avuto accesso a così tante informazioni, eppure mai come ora sembriamo così ignoranti nel senso profondo del termine. Ignoranti di noi stessi, delle nostre radici, del valore del tempo, del pensiero critico. La superficialità ha sostituito la profondità, il consumo ha preso il posto del senso, l’apparenza ha schiacciato l’essenza.

Basti pensare che Atene fu il luogo in cui nacque la democrazia diretta, Roma ci lasciò in eredità il diritto, il Rinascimento italiano rifiorì l’arte, la scienza e la filosofia, mentre l’Illuminismo francese plasmò i concetti di libertà, uguaglianza e fratellanza. Oggi, invece, questi stessi principi vengono svuotati del loro contenuto profondo e ridotti a slogan pubblicitari, strumenti di marketing o etichette politiche prive di sostanza.

Viviamo in un’epoca in cui la quantità ha surclassato la qualità. L’economia dei “numeri” ha soppiantato quella del pensiero. In ambito educativo, le riforme degli ultimi decenni — come il sistema anglosassone del “nozionismo performativo” — hanno trasformato scuole e università in fabbriche di competenze, perdendo di vista il fine ultimo dell’educazione: formare cittadini consapevoli, non semplici esecutori.

La scuola non educa più, addestra. L’informazione non informa, distrae. I rapporti umani si consumano a colpi di like e messaggi effimeri, in un’epoca dove la connessione digitale ha reciso il contatto umano. Eppure, tutto questo è mascherato da progresso, da libertà, da modernità.

Nel mondo dell’informazione, l’influenza dei social media e della “velocità della notizia” ha sostituito la verifica e l’approfondimento. La cosiddetta post-verità, concetto diventato centrale nel dibattito dopo l’elezione di Donald Trump nel 2016 e il caso Brexit, è il segnale che la narrazione ha superato i fatti, e l’emozione ha prevalso sulla razionalità.

Il vuoto culturale si riflette anche nella politica, sempre più priva di visione, asservita a interessi economici e incapace di proporre un orizzonte di senso. I giovani, privati di modelli autentici, si muovono in un labirinto esistenziale dove tutto sembra concesso, ma nulla davvero conta. In questo deserto di valori, l’indifferenza regna sovrana. 

Non esistono più leader visionari come Altiero Spinelli, che sognava un’Europa unita e pacificata dopo le tragedie del Novecento. Oggi regna una politica-spot, fatta di slogan e campagne elettorali permanenti. I populismi si alimentano di un disagio reale, ma propongono soluzioni illusorie, mentre la tecnocrazia affoga ogni impulso ideale.

A partire dagli anni Settanta del Novecento, tuttavia, le grandi narrazioni hanno cominciato a sfaldarsi. Il crollo dell’Unione Sovietica e la sconfitta delle grandi utopie collettiviste hanno lasciato un vuoto ideologico che il liberalismo occidentale – forte della propria vittoria geopolitica – non ha saputo o voluto colmare con progetti alternativi di massa. Lo storico Christopher Lasch già agli inizi degli anni Ottanta parlava di “narcisismo culturale”: un individualismo esasperato che premia l’apparenza, il successo immediato, il consumo misurato in like piuttosto che in contenuti autentici.

Se l’Occidente ha esportato il modello della “società dei bisogni artificiali”, oggi paga il prezzo di un consumismo auto-referente e privo di orizzonte. La corsa all’ultimo gadget elettronico, la banalizzazione dell’arte negli algoritmi delle piattaforme, la surreale “economia dell’esperienza” – in cui si vende l’illusione dell’avventura, del viaggio, dell’emozione (prestabilita e ritagliata a misura di influencer) – non fanno che moltiplicare l’effetto opposto: la sensazione di vivere in un eterno déjà-vu (già visto), senza più mete né significati.

Nell’era dei social network, la “cultura del vuoto” si nutre di una rete che demitizza ogni autorità e ogni gerarchia del sapere. La diffusione istantanea di fake news, meme e slogan riduce la complessità del reale a frammenti d’immagine: tweet ( il cinguettare di Twitter) di 280 caratteri che pretendono di spiegare il mondo, video virali che esauriscono la propria carica emotiva in pochi secondi. La conoscenza – un tempo paziente, stratificata, dialogica – diventa “snack culturale”(spuntino culturale: veloce, usa-e-getta, destinato all’oblio immediato.

Ma dietro le luci al neon di una società iper-connessa cresce un malessere latente. Il sociologo Byung-Chul Han parla di “società della stanchezza”: un mondo in cui l’individuo, ossessionato dal performance  (prestazione) e dalla self-optimization (gestione del tempo),  si buca di burn-out(ridotta efficacia personale) e depressione. La ricerca spasmodica di stimoli a basso costo, l’invadenza della tecnologia nelle relazioni interpersonali, il tramonto della privacy consacrano una civiltà che ha scambiato il senso con l’effimero e l’esperienza con l’immagine virtuale.

Comunque in tutto questo contesto cerchiamo di non drammatizzare. In diversi ambiti – dall’arte all’educazione, dall’impegno civico alle tecnologie “slow” – si intravedono segnali di un desiderio di riscatto. Piccole comunità che riscoprono la cura del territorio, movimenti artistici che rilanciano la manualità e il dialogo, startup che mettono al centro l’eco-sostenibilità anziché il profitto immediato: sono tutti segnali di un bisogno di spessore.

Se l’Occidente vorrà riconquistare il proprio antico ruolo di motore di civiltà, dovrà riscoprire la pazienza del pensiero critico, il valore della lentezza, il coraggio di rinunciare al superfluo. Solo così potrà provare a riempire quel vuoto culturale che, altrimenti, rischia di diventare il suo tratto distintivo più duraturo.

Quindi, non tutto è perduto. Da qualche parte, sotto le macerie della cultura-spettacolo, della globalizzazione omologante e dell’individualismo sfrenato, resiste un’umanità silenziosa che cerca ancora il significato, la bellezza, la verità. Forse da lì occorre ripartire: dal recupero delle parole, dell’ascolto, della lentezza. Dalla riscoperta dell’umano.

I giovani europei, secondo Eurostat, soffrono sempre più di analfabetismo funzionale e disorientamento esistenziale. Sono iperconnessi, ma privi di direzione. Il dramma non è solo la povertà economica, ma quella culturale e spirituale, che porta all’apatia, alla solitudine e alla rassegnazione e piano piano, si st rendendo conto di questa anomalia.

Infatti, sotto le macerie della cultura-spettacolo, della globalizzazione omologante e dell’individualismo sfrenato, ebbene sapere che resiste un’umanità silenziosa che cerca ancora il significato, la bellezza, la verità. I movimenti per la giustizia ambientale, la riscoperta della filosofia, l’attenzione al benessere interiore, mostrano che il bisogno di senso non è morto, ma soltanto coperto dal rumore.

Forse da lì occorre ripartire: dal recupero delle parole, dell’ascolto, della lentezza. Dal coraggio di educare al dubbio e non solo alla risposta. Dalla riscoperta dell’umano, come hanno fatto i grandi pensatori del passato.

L’Occidente può ancora salvarsi, ma deve prima riconoscere il proprio vuoto per poterlo colmare. Con coraggio, con pensiero, con cultura vera. Solo allora potrà tornare ad essere non solo la culla, ma anche la guida di una civiltà che si fonda sul senso, e non sull’illusione.


1 maggio 2025 – Giuliano Martini Ascalone


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