Politica tecnocratica: il declino della democrazia e l’ascesa dei lupi vestiti da agnello

 


Politica tecnocratica: il declino della democrazia e l’ascesa dei lupi vestiti da agnello

 

Negli ultimi anni, il panorama politico internazionale ha assistito a una trasformazione profonda. La crisi della rappresentanza tradizionale e l’emergere di crisi economiche e sociali hanno favorito l’ascesa di un modello politico che si presenta come "tecnocratico". Dietro l’apparente efficienza e competenza, tuttavia, si cela un fenomeno inquietante: il progressivo indebolimento dei meccanismi democratici che, a loro volta, creano terreno fertile per attori politici ambigui, ovvero quei “lupi vestiti da agnello” pronti a sfruttare la fiducia pubblica per consolidare poteri autoritari.

Questo fenomeno, spesso presentato come una necessità per garantire stabilità e competenza nella gestione della cosa pubblica, ha tuttavia generato una progressiva erosione dei principi democratici, lasciando spazio a una classe dirigente che, dietro l’apparenza di neutralità e competenza, agisce in funzione di interessi privati e sovranazionali.

La tecnocrazia, per sua natura, esclude il dibattito politico e il confronto ideologico, sostituendoli con la presunta oggettività di esperti e funzionari. Questo processo mina il concetto stesso di sovranità popolare, riducendo la partecipazione politica a un esercizio formale privo di reale incidenza sulle decisioni cruciali. Di conseguenza, i governi diventano sempre più esecutori di agende preconfezionate, spesso in linea con gli interessi delle grandi lobby economico-finanziarie, piuttosto che interpreti della volontà popolare.

Uno degli effetti più preoccupanti di questo modello è l’impossibilità per i cittadini di contestare efficacemente le scelte imposte dall’alto. Le istituzioni si chiudono in un fortino di autoreferenzialità, delegittimando qualsiasi forma di dissenso con il pretesto della complessità tecnica delle questioni trattate. In tal modo, ogni tentativo di opposizione politica viene ridotto a un’inutile protesta, svuotata di significato e priva di strumenti per incidere realmente sulle politiche pubbliche.

Nel frattempo, il populismo tecnocratico, ovvero il fenomeno per cui leader apparentemente moderati e rassicuranti vengono imposti come unici garanti della stabilità, trasforma la politica in una farsa. Questi leader, spesso privi di un mandato popolare forte, si presentano come salvatori della patria, mentre in realtà operano secondo logiche che tutelano i privilegi di pochi a scapito della collettività. La crisi della rappresentanza democratica si manifesta così nell’incapacità dei cittadini di riconoscersi nelle istituzioni, aumentando il distacco tra governanti e governati.

Se la democrazia deve sopravvivere, è necessario riscoprire la centralità della politica intesa come partecipazione attiva e consapevole. I cittadini devono riappropriarsi del dibattito pubblico, rivendicando il diritto di influenzare le scelte che riguardano il loro futuro. Senza un ritorno alla sovranità popolare, la politica continuerà a essere un terreno fertile per i lupi vestiti da agnello, che sotto la maschera della competenza celano un potere sempre più distante e inaccessibile.

Una politica in transizione

Il termine “tecnocrazia” richiama l’idea di governance affidata a esperti e specialisti, scelti non in base a appartenenze politiche o carisma, ma sulla base delle competenze tecniche necessarie per affrontare le sfide contemporanee. In teoria, questo approccio mira a superare le inefficienze politiche e a garantire decisioni basate su dati e analisi rigorose. Tuttavia, la sostituzione del dibattito pubblico con valutazioni tecniche rischia di escludere il cittadino comune dal processo decisionale, allontanando la politica dalla sua natura essenzialmente partecipativa e creando una sorta di “democrazia per tecnici”.

In questo contesto, la politica tecnocratica si presenta come una risposta alla complessità dei problemi globali: crisi economiche, cambiamenti climatici, pandemie e disuguaglianze sociali. Gli esperti, con il loro linguaggio specialistico e le soluzioni “scientifiche”, offrono una via d’uscita dall’inerzia politica tradizionale. Tuttavia, il rovescio della medaglia è un progressivo allontanamento dei processi democratici, dove il confronto, il dissenso e la partecipazione diretta vengono soppressi in nome dell’efficienza.

Il declino della democrazia rappresentativa

La democrazia rappresentativa si fonda sul principio del confronto aperto, del dibattito e della responsabilità dei rappresentanti eletti verso i cittadini. Negli ultimi decenni, però, il crescente scetticismo nei confronti delle istituzioni e la percezione di una politica distante e burocratizzata hanno alimentato una crisi di fiducia. In molti paesi, questo clima di sfiducia ha portato a un calo della partecipazione elettorale e a una delega sempre più accentuata di poteri alle élite tecnocratiche.

Il risultato è un sistema in cui le decisioni vengono prese dietro porte chiuse, in ambienti protetti dalla retorica “scientifica” e “oggettiva” degli esperti, ma prive del confronto pubblico e della trasparenza che sono alla base di una democrazia sana. In questo scenario, il rischio non è solo una riduzione del controllo democratico, ma l’implementazione di politiche che, pur mascherate da tecnicismi, possono favorire interessi particolari e, in ultima analisi, minacciare la libertà individuale.

I lupi vestiti da agnello

L’immagine dei “lupi vestiti da agnello” è particolarmente calzante in questo contesto: si tratta di quei politici o dirigenti, dotati di un’apparenza rispettabile e di una retorica orientata al bene comune, che in realtà nascondono ambizioni autoritarie o interessi elitari. Questi attori approfittano della crisi democratica per guadagnare spazio, presentandosi come i salvatori della collettività, capaci di risolvere problemi troppo complessi per il dibattito politico tradizionale.

Il rischio è duplice. Da un lato, la delega totale al “saper fare” tecnico può giustificare decisioni che ignorano le peculiarità locali e le esigenze dei cittadini. Dall’altro, la mancanza di un confronto aperto favorisce l’emergere di decisioni unilaterali, che possono concentrarsi su soluzioni centralizzate e autoritarie, allontanando la politica dal suo carattere di servizio pubblico e di partecipazione condivisa.

L’utilizzo della retorica tecnocratica, inoltre, può servire a legittimare politiche impopolari o repressive. Presentare misure drastiche come “necessarie e scientificamente fondate” permette a questi leader di eludere il controllo democratico, argomentando che il bene superiore e la gestione della crisi giustificano decisioni che altrimenti verrebbero messe in discussione.

Il caso più emblematico di "lupo vestito da agnello" è Mario Draghi. Già nel 1992, Draghi partecipò a un incontro sul panfilo Britannia, il lussuoso yacht della Regina Elisabetta II, insieme a rappresentanti di banche d'affari e istituzioni finanziarie internazionali. Qui si discussero le privatizzazioni delle grandi aziende pubbliche italiane, che fino a quel momento rappresentavano il cuore dell’economia nazionale.

A partire da quel momento, il processo di privatizzazione subì un’accelerazione impressionante: ENI, IRI, Telecom Italia, Autostrade e molte altre imprese strategiche furono cedute a prezzi discutibili, spesso a gruppi stranieri o a soggetti legati al potere finanziario internazionale. Le conseguenze furono devastanti:

  •                   Perdita di sovranità economica: molte aziende strategiche passarono sotto il controllo di capitali esteri.
  •               Diminuzione della competitività nazionale: l’Italia perse il controllo su settori chiave come energia, telecomunicazioni e infrastrutture.
  •          Precarizzazione del lavoro: con il passaggio ai privati, molte aziende ridussero il personale e peggiorarono le condizioni lavorative.

Draghi, con il suo ruolo chiave nelle privatizzazioni, ha aperto la strada a un modello economico basato sulla finanziarizzazione e sulla riduzione del ruolo dello Stato. Presentatosi come un tecnico neutrale, ha invece portato avanti politiche che hanno favorito le élite finanziarie a discapito della popolazione italiana. Il suo ritorno come Presidente del Consiglio nel 2021 ha confermato questa tendenza, con il PNRR che ha ulteriormente vincolato l’Italia alle direttive europee, rafforzando il controllo esterno sulla nostra economia.

Un altro aspetto controverso della gestione di Mario Draghi riguarda la pandemia da Covid-19. Durante il suo mandato come Presidente del Consiglio, Draghi ha imposto misure draconiane che hanno diviso il Paese. La più discussa è stata l'introduzione del Green Pass, una certificazione obbligatoria per accedere a luoghi di lavoro, ristoranti e trasporti. Questa misura ha generato un clima di discriminazione sociale tra vaccinati e non vaccinati, oltre a sollevare numerosi dubbi sulla sua reale efficacia sanitaria.

Molti esperti hanno criticato la gestione pandemica di Draghi, ritenendola più politica che scientifica. Il Green Pass, lungi dall’essere una soluzione sanitaria efficace, si è rivelato una forzatura burocratica che ha spinto molte persone a vaccinarsi non per convinzione, ma per necessità lavorativa. La sua imposizione ha portato a proteste di massa e a una polarizzazione del dibattito pubblico.

Altro personaggio emblematico è Romano Prodi, economista e uomo di fiducia dell’Unione Europea, Prodi ha avuto un ruolo cruciale nell’ingresso dell’Italia nell’euro. Il suo governo (1996-1998 e poi 2006-2008) fu caratterizzato da misure di austerità e privatizzazioni di aziende statali (come Telecom Italia e Autostrade), che secondo molti hanno indebolito il sistema economico italiano, favorendo l’ingresso di capitali stranieri e penalizzando le aziende nazionali. Inoltre, il suo secondo governo cadde nel caos politico, lasciando il Paese in una situazione di instabilità.

Le conseguenze sul tessuto sociale e politico

Il progressivo allontanamento dei cittadini dal processo decisionale porta con sé una serie di conseguenze che vanno ben oltre l’ambito politico. Quando le scelte vengono prese in un contesto di esclusione e tecnicismo, si assiste a un impoverimento del dialogo pubblico e a una polarizzazione crescente. I cittadini, sentendosi esclusi e disillusi, possono essere attratti da forme di populismo che, a loro volta, promettono una ripresa del “controllo popolare” ma rischiano di cadere in trappole autoritarie.

Inoltre, la crescente fiducia riposta in esperti e tecnocrati può portare a una sorta di “dittatura del bene”, in cui le decisioni, sebbene basate su dati e analisi, non tengono conto del pluralismo di opinioni e delle diversità culturali e sociali che caratterizzano una società democratica. Il rischio è quello di una governance in cui il consenso viene imposto, piuttosto che costruito attraverso il dialogo e la partecipazione.

Una sfida per il futuro della democrazia

Il ritorno a un modello politico che integri l’esperienza tecnica con il coinvolgimento diretto dei cittadini appare oggi più che mai necessario. Le sfide globali richiedono competenze specialistiche, ma non a discapito della partecipazione e della trasparenza. È fondamentale che la tecnologia e la competenza non diventino scuse per limitare il dibattito democratico, ma strumenti per arricchirlo.

Riforme istituzionali che promuovano la trasparenza, la partecipazione e il controllo dei poteri sono essenziali per evitare che la politica tecnocratica si trasformi in una nuova forma di autoritarismo mascherato da efficienza. In quest’ottica, il ruolo dei media, della società civile e delle istituzioni stesse diventa cruciale nel vigilare e nel garantire che il bene comune non venga sacrificato sull’altare della “scientificità” incontestabile.

Conclusioni

L’attuale trasformazione del panorama politico, segnato dall’ascesa della tecnocrazia e dal declino delle pratiche democratiche partecipative, rappresenta una sfida enorme per il futuro della società. I “lupi vestiti da agnello” – quei leader che, con la maschera della competenza, nascondono ambizioni autoritarie – possono prosperare in un sistema in cui il dialogo pubblico viene messo a tacere in nome dell’efficienza. Per invertire questa tendenza, è indispensabile riscoprire il valore del confronto democratico, reintegrare i cittadini nel processo decisionale e garantire che la gestione delle crisi non diventi sinonimo di esautorizzazione dei diritti fondamentali.

In definitiva, la vera sfida per il nostro tempo non è solo quella di affrontare le crisi tecniche ed economiche, ma quella di preservare e rafforzare il tessuto democratico, assicurando che la politica resti al servizio della collettività e non diventi il campo di battaglia di interessi esclusivi e autoritari.

 

8 febbraio 2025 - Giuliano Martini Ascalone


Posta un commento

Nuova Vecchia