Trattenute in busta paga: trent’anni di inganni e disuguaglianze

 


Correva l’anno 1995, quando gli italiani furono chiamati a esprimersi su una questione cruciale: l’abolizione delle trattenute automatiche in busta paga. Il referendum, voluto dai radicali, raggiunse il quorum e decretò l’ampia vittoria dei sì, sancendo la volontà popolare di dire basta a un sistema percepito come invasivo e ingiusto.

Eppure, a trent’anni di distanza, quel risultato storico si è rivelato un’illusione. La volontà popolare è stata aggirata con nuove norme e la contrattazione collettiva, rendendo vano lo strumento referendario. Questo schema si è ripetuto in altre occasioni: il finanziamento pubblico ai partiti, abolito a parole e risorto sotto forma di rimborsi elettorali, o il Ministero dell’Agricoltura, trasformato nelle Politiche Agricole.

Aggirare la volontà dei cittadini è ormai una specialità delle democrazie evolute, ma ciò che rende il quadro ancora più insopportabile è il contrasto con una realtà sociale sempre più diseguale.

Stipendi d’oro e pensioni da fame: l’assurdità di un sistema

Mentre milioni di cittadini italiani faticano ad arrivare a fine mese con stipendi medi di 1.200-1.500 euro, esistono politici e sindacalisti che percepiscono stipendi da capogiro: decine di migliaia di euro al mese, spesso accompagnati da benefit, rimborsi e indennità. Non parliamo poi delle pensioni d’oro, alcune delle quali superano i 10.000 euro mensili, a fronte di chi, dopo 40 anni di lavoro, si ritrova con una pensione da 500 euro al mese o poco più.

Com’è possibile giustificare questa sproporzione? Come può uno Stato che si definisce democratico tollerare che i sacrifici di chi lavora duramente servano a garantire privilegi smisurati a chi occupa le stanze del potere?

Il caso dei sindacati è emblematico: anziché battersi per difendere i diritti dei lavoratori, sembrano essersi trasformati in trampolini di lancio per carriere politiche lucrose, dimenticando le difficoltà reali degli operai e dei pensionati. Gli stipendi da sogno dei vertici sindacali non sono solo uno scandalo economico: sono un insulto morale a tutti quei lavoratori che ogni giorno si spaccano la schiena per mantenere il Paese in piedi.

Un divario incolmabile

Il divario tra chi governa e chi è governato non è più solo economico: è morale, etico e sociale. È lo schiaffo di un sistema che premia l’arroganza e punisce la fatica. Perché mai un politico dovrebbe percepire cifre che un cittadino medio non guadagnerà nemmeno in dieci anni di lavoro? Perché mai un sindacalista dovrebbe arricchirsi mentre le condizioni dei lavoratori peggiorano?

Queste cifre non rappresentano solo una disuguaglianza economica: incarnano un sistema volutamente costruito per arricchire una casta privilegiata alle spalle di chi fatica per sopravvivere.

Un appello alla dignità e alla giustizia sociale

Non è più tollerabile che un popolo che paga le tasse e rispetta le leggi debba vedere i propri rappresentanti arricchirsi indisturbati, tradendo il mandato ricevuto. Non è più accettabile che strumenti di partecipazione come il referendum vengano ridotti a esercizi di stile, senza alcun impatto reale.

Se vogliamo costruire una democrazia degna di questo nome, dobbiamo partire dalla giustizia sociale. Dobbiamo pretendere che stipendi e pensioni di politici e sindacalisti siano proporzionati alla realtà che rappresentano. Perché non possiamo essere governati da chi vive in un mondo dorato, completamente scollegato dalle difficoltà quotidiane di chi rappresenta.

Ristabilire la centralità della volontà popolare, combattere i privilegi e ridurre le disuguaglianze: questa è la vera sfida del nostro tempo.


2 dicembre 2024 - Giuliano Martini Ascalone


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