Lo strapotere non solo sul web, siamo le miniere dei Big tech


FRANCESCO LONGOBARDI
- Scrivo a supporto di quanto nei giorno scorsi denunciato da Marina Berlusconi. Il big tech si arricchisce vendendo i dati che noi stesso gli forniamo con un consenso esplicito ma di cui non siamo, molto spesso, consapevoli. E che estrae da veri e propri imperi digitali.

Lo strapotere delle grandi piattaforme digitali, dai social network alle società che gestiscono imperi in diversi settori molto distanti tra loro (Amazon in testa), è un tema fondamentale di discussione nel dibattito politico e mediatico contemporaneo. Tanto che di fronte a certi veri e propri casi di arbitrio (modifiche unilaterali dei contratti, fenomeni di censura, shadow banning) il mondo mediatico e i decisori politici si sono sentiti chiamati in causa e tenuti a promuovere o caldeggiare misure volte ad ampliare lo scrutinio sulle attività dei colossi tecnologici.

Tutto questo ci porta alla radice del problema. E cioè il fatto che la forza principale del big tech sta nella fonte principale di risorse che quotidianamente gli viene, spontaneamente, concessa. E nella consapevolezza che tutto ciò che passa per i loro canali, dai meme ai dibattiti sui massimi sistemi, contribuisce in fin dei conti a profilare la vera miniera da cui estrarre i preziosi dati che vengono utilizzati come fonte del loro business: noi stessi. I nostri dati sono il carburante, il motore è un sistema di società tecnologiche estremamente concentrato e in mano a pochi oligopolisti.

I dati, la miniera del big tech

Molto spesso tendiamo a sottovalutarlo. Ma siamo noi stessi, consapevolmente, che iscrivendoci alle piattaforme digitali avviamo questo percorso che porta, come un Panopticon o un Grande Fratello, le società digitali a profilarci attraverso i loro filtri e i loro algoritmi. Come un prato coperto da un manto nevoso, Internet è un terreno su cui ogni passo lascia impronte profonde. E i "passi" sono da noi compiuti attraverso delle azioni apparentemente banali, quei tasti "Accetto" con cui concediamo alle piattaforme in cui ci iscriviamo la possibilità di fare dei nostri dati gli usi che meglio ritengono nei limiti di legge.
Questi dati personali non appartengono quindi a noi e nemmeno ai nostri cari dal momento in cui sottoscriviamo quelli che sono veri e propri contratti a costo zero. L'esca è la gratuità dell'account, l'amo la possibilità per il big tech di costruire dei veri e propri imperi informativi sulla scia delle tracce che noi acconsentiamo a lasciare.
Se la privacy, in passato, era prerogativa di istituzioni governative e Stati democratici, oggi è affidata alle aziende tecnologiche, a cui noi abbiamo rivelato, più o meno consapevolmente, chi siamo stati, chi siamo e chi vorremmo essere. Sono veri e propri contratti, personalizzati a secondo del bisogno, a cui prestiamo il nostro assenso accettandoli senza alcuna coscienza critica e dimenticandoci, per carenza di tempo e voglia, di leggerli Giurando di fatto il falso, dato che accettiamo dichiarando di aver "letto e compresa l'informativa sulla privacy" in cui ogni società chiede esplicitamente i dati a cui può avere accesso qualora l'utente li inserisse sul sito. E così, nota Security.org, Facebook può legittimamente conoscere la nostra mail, i nostri sistemi di pagamento, la durata delle nostre attività, le nostre preferenze politiche, sociali, sessuali, religiose, le attività da noi compiute leggendo articoli o guardando video, i nostri connotati (avrete notato i suggerimenti di tag sui volti nelle foto, legati all'utilizzo di algoritmi di intelligenza artificiale sul riconoscimento facciale). Google va oltre, specie sui dispositivi dotati di segnale GPS attivo, registrando tempi e orari degli spostamenti, password associate agli account creati utilizzando le mail di Big G, le stesse conversazioni di posta elettronica e, attraverso i registratori vocali, anche i dialoghi degli utenti. A cui si associa la capacità trasversale di capire l'ecosistema di device utilizzati da ogni utente e di ricordare la cronologia delle ricerche di un utente. La stessa che fa la fortuna di un colosso dell'e-commerce come Amazon.
Chiaramente, la gratuità dei social network e delle piattaforme affini e l'elevato grado di usabilità di buona parte delle funzioni dei siti del big tech senza alcuna necessità di pagamenti è un punto di forza che consente alle società in questione di buttarsi a tutta forza sul mercato delle pubblicità, che rappresentavano nel 2020 l'82% degli incassi di Google, l'84% di quelli di Twitter e il 98% di quelli di Facebook, ma sono saliti di oltre il 40% anche per Amazon, che dall'advertising incassa 15 miliardi di dollari l'anno.
Ma tutto questo non si ferma qui. Perchè dietro ai brandi celebri dei siti e dei social network che vediamo come "patina" dei colossi tecnologici si celano enormi conglomerati finanziari che controllano, in maniera simile a moderne Compagnie delle Indie, affari e società nei vari settori. Sui cui lavori, molto spesso, è mantenuto il riserbo. Ma che silenziosamente ampliano le prospettive operative del big tech all'insaputa dei comuni consumatori. Arrivando fino a settori insospettabili.
Una consapevolezza necessaria: noi siamo la vera fonte di guadagno dei colossi della tecnologia e nelle nostre mani, come cittadini prima ancora che come utenti e consumatori, sta la possibilità di creare un consenso diffuso sul corretto metodo di cessione di dati che rappresentano una fondamentale e inalienabile estensione digitale della nostra persona. Premessa per interventi legislativi che consentano di evitare che le nostre società siano trattate come "miniere" da parte delle Compagnie delle Indie del XXI secolo.

Posta un commento

Nuova Vecchia