Festival di Cannes 2016: Kristen Stewart musa di Woody Allen in "Café Society"

Malinconia del tempo perduto, lo spleen classico di Woody Allen declinato nella tarda età di un autore che ora preferisce far sorridere e immalinconisce il suo proverbiale spirito ebreo. Si apre così Cannes 69, festival che si sforza di sorridere mentre le norme severe della sicurezza imposta dai “mala tempora” danzano il loro rituale di code e controlli sulla Croisette e il rigore piovoso del clima contribuisce a complicare le cose. Che la festa cominci, comunque! E allora la grande ouverture griffata Woody Allen porta il titolo dei giorni lievi di un altro mondo - un’altra America, un’altra Hollywood, un altro Cinema: “Café Society”, ovvero quel cerchio magico fitgeraldiano di film, musica jazz, letteratura arrivata un po’ per caso al “potere” delle notti americane negli Anni Trenta. Era il tempo in cui la bella società brindava tra New York e Los Angeles nei leggiadri locali in cui spumeggiava la ricchezza del dopo proibizionismo e la spensieratezza ancora non prevedeva i rigori futuri della nuova guerra mondiale. Questo è uno di quei film in cui Woody Allen si trastulla con la sensazione di un’epoca passata ricordata attraverso una visione coreutica, costruita su una collana di personaggi e storie che adornano la sua visione della realtà come qualcosa che ormai è trascorso, come fosse uno spirito che guarda da lontano un mondo che non c’è più.
La sua musa è Kristen Stewart, neodiva dai trascorsi neoromantici della vampiresca saga di “Twilight”, sulla cui presenza di sicuro spiazzata e poco consona all’America degli Anni Trenta costruisce il contrappunto di questa sua nuova commedia romantica. E’ lei l’ispirazione della nostalgia da tempo perduto, che è sempre una questione d’amore mancato, di sentimento di perdita per ciò che ha fatto battere il cuore. E allora eccola nei panni di Veronica, segretaria ed amante di Phil Dorfman, un potente agente delle star hollywoodiane (interpretato da Steve Carrel, dopo la burrascosa fuga dal set di Bruce Willis…), un ebreo newyorkese spintosi a Los Angeles che governa dal suo studio le carriere delle star e il successo dei film. Nel suo ufficio un giorno arriva anche il nipote Bobby, figlio di una sorella che vive a New York, ragazzo docile e arguto che Woody Allen disegna sulla figura inconfondibilmente hipster di Jesse Eisenberg, altro polo di ricercato contrappunto rispetto al setting Anni Trenta del film. Bobby si districa nel nuovo mondo hollywoodiano grazie all’aiuto di Veronica, alle cui cure lo zio lo ha affidato, non immaginando che l’inevitabile liaison dangereuse che quell’incontro provoca: Bobby si innamora di Veronica ed è ricambiato con tenerezza dalla ragazza, che però tiene anche fede al suo segreto amore per Phil. Il triangolo in realtà è una sciarada d’amore in cui Veronica è l’unica a conoscere la verità. Almeno sino a quando tutto non verrà a galla e la vita prenderà il suo corso, spingendo l’ingenuo ragazzo a tornare a New York, dove metterà a frutto quanto appreso dallo zio e inizierà una carriera come proprietario di un night club di gran moda. Il doppio corpo del film prende così il via nella gestione della verità della vita, quella in cui il sogno d’amore hollywoodiano vissuto dal ragazzo non lascia il posto all’età dell’amore necessario, quello che lo vede con una nuova donna, che pure ama e sposa e via dicendo. Mentre il tempo perduto non tarderà a presentare il conto, facendo ritrovare i due amanti di ieri, ancora innamorati ovviamente, eppure cambiati nel loro nuovo costume di vita, nelle storie che si sono costruite, nelle mezze verità che vivono.
Woody Allen insomma maneggia il ritratto d’epoca come una canzone malinconica i cui versi fanno rima con il senso di una vita che tradisce se stessa, versione esistenziale del tracciato morale che è sotteso a tutto il cinema di questa sua tarda stagione. Il faccia a faccia tra il sogno e la realtà, ovvero tra la dolce menzogna e la placida verità, sta tutto nel contrappunto tra Los Angeles e New York, città emblema di una America che è l’universo in cui Woody è finalmente tornato dopo il giro “cineturistico” nelle capitali europee. La tensione autoriale resta netta e precisa, non forte quanto si vorrebbe sempre da lui: “Café Society” è un film che si lascia seguire ma che allo stesso tempo fatica a reggere i cento minuti, prima di arrivare alla meravigliosa scena finale, autentico premio di grande cinema consegnato dal regista al suo spettatore. Non aspettatevi battute folgoranti, piuttosto disponetevi all’ascolto di una storia che si nutre poi di una serie di sottotrame che puntellano il film: lo zio criminale, i genitori ebrei poco ortodossi, l’insieme di figure che animano la Hollywood dei divi. Ma il vero puntello del film è anche la fotografia magistrale di Vittorio Storaro, grafia luminosa e cromatica pura applicata alla tecnica digitale con esito superlativo. Kirsten Stewart e Jesse Eisenberg fanno coppia quasi astratta, recitando fuorisincrono rispetto alle esigenze di un film in costume, troppo giovani eppure già troppo incrostati di se stessi, del loro status di neodivi. Molto meglio di sicuro l’esperienza del sempre più interessante Steve Carrell nei panni dello zio Phill. Ultima nota: produce Amazon, che sta seguendo una linea d’autore per il suo arrivo sul mercato del cinema e con la quale Woody ora ha già in cantiere il suo prossimo impegno: una serie televisiva per ora in agenda col il titolo generico “Untitled Woody Allen Project”.

Daniele Martini

Sono un giornalista pubblicista, docente di comunicazione e sostegno. Sono un operatore della comunicazione.

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